«Nell’istante in cui entrò fra le rovine gli sembrò che il cuore straziato si annerisse e purificasse, come un grumo di materia in cui il fuoco stesse consumando tutti i pensieri speranzosi e folli.»

Train Dreams è una novella di Denis Johnson del 2002, uscita in Italia per Mondadori nel 2013 nella traduzione di Silvia Pareschi. Si presenta con una trama che richiama una comune storia americana, scritta in terza persona, con voce narrante del tutto priva di enfasi e dal tono asciutto. I personaggi che animano l’opera appartengono alla classe lavoratrice, costretta a grandi durezze per sopravvivere, impegnata nella costruzione di infrastrutture, nel settore dei trasporti, e nell’approvvigionamento del legname. Siamo nel 1917, in Europa c’è la Grande Guerra, ma ciò sembra non toccare dall’interno il Dio America, il cui corpo rapidamente fagocita le esistenze dei propri umili figli. Nessuno sembra preoccuparsi del genere di vita che si conduce in una nazione in ascesa, le vite di milioni di lavoratori, con le proprie insignificanti quotidianità, è affare da poco.

Robert Grainier è un lavoratore come tanti, costruisce ponti e abbatte alberi. La sua felicità risiede nell’amore per la famiglia, una giovane moglie e la piccola figlia. La vita di Grainier è oltremodo modesta, fatta di relazioni elementari, sguardi intensi sulla natura, di interazione con gli animali e nessuna domanda intellettuale. Non si pensi a una sorta di elogio dell’ignoranza, la scrittura di Denis Johnson necessita di condizioni estreme per rivelarsi e da sempre attraversa le avversità dell’esistenza. Anche in quest’opera si carica di disperata cruenza, esattamente come la vita di Grainier che viene inghiottita da un destino oscuro e inaspettato, in una spirale di eventi tragici. Attraversare la vita è come fare la guerra, senza colonnelli o capitani, senza obiettivi e strategie.
Il protagonista è un orfano ignaro delle origini familiari, nessuno ricorda chi fossero i suoi genitori. La sua realizzazione familiare conquistata in età adulta viene distrutta da un incendio ferocissimo, che annienta la valle in cui vive, incenerisce la dimora, il nido che l’uomo aveva costruito con le proprie mani, e porta via con sé la moglie e la figlia, divenute polvere o forse annegate nel tentativo di salvarsi. Il dolore di questa grave perdita conduce Robert Grainier a diventare una sorta di eremita dell’esistenza, tra le rovine di cenere impara a ululare dai lupi di montagna, mostra resilienza e non si dà per vinto, ma senza alcuna foga di riscatto, porta avanti la propria vita fino alla fine dei propri giorni, sebbene i fantasmi del passato e delle tragedie, vissute o di cui è testimone, non lo abbandoneranno mai.

Attorno alla figura di Grainier ruotano una serie di personaggi secondari, un cinese, un indiano, un ragazzo dal cuore debole, un uomo convinto di essere stato sparato da un cane, tutti mostrati solo in superficie, non particolarmente profondi e nemmeno artefici di gesta memorabili. Sono le loro vite spezzate o i ritorni nella memoria del protagonista a renderli degli spiriti, entità che incidono sul quotidiano di uomo che cerca nella ogni giorno l’espressione della propria vita. Tali incursioni nella coscienza generano progressivamente un vero e proprio collasso del mondo razionale. Grainier potrebbe essere un personaggio verghiano appartenente al ciclo dei vinti, ma senza fede nella Provvidenza e una voce narrante che prende le sue parti, oppure un Siddharta al rovescio, che nella propria solitudine ricerca un equilibrio nel tentativo di sfuggire alla follia della propria realtà. Eppure il mondo là fuori è troppo forte e indomabile, la vita troppo precaria e con l’incedere delle incertezze il tratto stilistico di Johnson si fa via via sempre più allucinatorio fino a raggiungere il punto in cui la realtà viene sovrastata dall’elemento irrazionale. Nella vicenda personale di Grainier il cieco dolore viene cauterizzato dal prosieguo, quel movimento naturale che porta l’essere umano a dover andare avanti in qualche modo, un puro istinto di sopravvivenza che ingaggia senza proclami la propria sfida col destino. Nell’assurdità di altre vicende di uomini distrutti, le distorsioni si contaminano con le credenze popolari e le superstizioni, rendendo nei personaggi dei risvolti psicologici che talvolta potrebbero apparire incomprensibili, pure farneticazioni, e invece Denis Johnson ci mette in contatto con una sfera esistenziale che, intuitivamente, si potrebbe definire di logoramento. Resilienza non coincide necessariamente con l’integrità, la resistenza non indica assenza di attrito ed è probabilmente questa prospettiva a porsi giorno dopo giorno in prossimità della morte, ovvero il momento in cui la natura, il caso o un dio sconosciuto ha deciso che lo scontro deve irrimediabilmente cessare. Nascita e morte sono polarizzate e nel mezzo sta l’attrito vissuto senza eroismo, con accettazione e non senza contraddizioni.

Train Dreams non è un libro politico, eppure i tratti dominanti di Grainier in particolare sono caratteristici di un certo tipo di America provinciale, credibili non alla luce della trama o per un’espressione puramente sociologica, ma in virtù di una poetica convincente, capace di rendere l’essenzialità un punto irrinunciabile affinché si compia la rappresentazione della tragedia umana senza fronzoli. In questo approccio Johnson, allievo di Raymond Carver, aderisce perfettamente a quanto dichiarava sulla scrittura: «Scrivi nudo. Ciò significa scrivere quello che non diresti mai. Scrivi con il sangue. Come se l’inchiostro fosse così prezioso da non poterlo sprecare. Scrivi in ​​esilio, come se non devi più tornare a casa e devi ricordare ogni dettaglio». Non chiamatelo iperrealismo: è la profondità dell’abisso che va scandagliata e queste tenebre vengono attraversate da un linguaggio senza dubbio poetico: entrare in una scrittura di questo tipo spetta a quanti vorranno empatizzare con le immagini generate, abbracciando un malessere profondo e corrosivo. Proprio come nella vita di certi uomini, tra luci e ombre, il cammino prosegue e parla soltanto all’intima coscienza di chi ne intercetta i passi: il gesto è più forte della parola eppure spetta alla parola traghettare il gesto oltre la vicenda esistenziale.

Federico Preziosi