L’opera di Christa Wolf si è molto spesso assunta il compito di individuare e discutere le problematiche del proprio paese, la DDR, quell’altra Germania a Est del Muro di Berlino, di cui è stata ‘cantautrice’, veggente e capro espiatorio, per poterlo migliorare dall’interno.

Il suo è stato un dialogo serrato e ininterrotto con i propri lettori con una specifica idea di letteratura che, ispirandosi al motto di Ingeborg Bachmann, si è proposta come briciole di pane tra i denti che, anziché placarla, dovrebbero stimolare la fame. La fame di cosa? Di conoscere per potere agire, di fare sentire la propria voce per donarla a chi non compare nel discorso pubblico, di credere nei propri ideali anche mettendo in discussione la terra destinati ad accoglierli, di avere il coraggio e la credibilità del dissenso ma pur sempre all’interno di un sistema, di dare vita ad una prosa che appoggi e soccorra il farsi soggetto dell’uomo e, rivoluzionaria e realistica, possa sedurre e incoraggiare all’impossibile.

Certo il contesto in cui tutto avviene non gode di buona fama, prima e dopo il Muro, nella narrazione che ancora oggi si fa della DDR. Un regime autoritario e poliziesco, un luogo di spie e di spiati, ma anche una terra che ha prodotto una letteratura florida benché condizionata dal meccanismo di censura dell’apparato e autocensura dello stesso scrittore.

La scrittura di Wolf è stata un sismografo non del socialismo reale quanto semmai del reale socialismo, quello vissuto tutti i giorni dai cittadini tedesco-orientali nella parabola quarantennale della DDR, è stata capace di catturare quelle schegge che la Storia deposita dentro di noi e che consideriamo realtà e di porsi, al pari di altri autori, come sfera pubblica sostitutiva che, se da un lato ha fatto le veci della stampa imbavagliata e delle istituzioni politiche, dall’altro è diventata luogo di discussione sulle avarie della patria.

Emblematico in questo senso è un testo, poco noto in Italia se paragonato a Il cielo diviso, Cassandra e Medea, il quale, intarsiando autobiografia dell’autrice e storia del proprio tempo, segna l’inizio del paradigma critico wolfiano: Riflessioni su Christa T., il romanzo dell’inadeguatezza dal sistema, uscito in tiratura ridotta nel 1968 e fatto letteralmente sparire dalle librerie della DDR. In queste pagine scottanti per l’apparato si parla infatti della fatica di dire ‘io’ di una donna, amica scomparsa di Wolf, di una creatura singolare (nel duplice senso di atipica e di limitata dal sistema) che, incapace di realizzarsi, naufraga con un lento morire interiore di fronte ad una società troppo prescrittiva e omologante.

Ma osserviamo le date e il parallelismo cronologico che intrama il testo: tra la rivolta del giugno 1953 e l’inizio della malattia di Christa T., tra i fatti di Ungheria e il suo tracollo psico-fisico. Mentre sul volto della protagonista compaiono i segni della leucemia, questa la diagnosi ufficiale, in luogo del sorriso e della vitalità di un tempo, a Berlino Est i reparti corrazzati sovietici soffocano nel sangue le manifestazioni degli operai edili del 1953. Mentre il corpo di Christa T. è inchiodato al letto di un ospedale, nel satellite Ungheria l’artiglieria sovietica uccide ventimila persone durante l’insurrezione dell’autunno 1956.

Censura di partito, editoria, critica letteraria si trovano di fronte a qualcosa di nuovo e provocatorio nel panorama culturale piattamente ideologizzato degli anni Sessanta nella DDR. Perché non possono non leggere l’incontro-scontro tra la realtà esterna del socialismo reale e la disposizione interna, tutta umanistica, di una sua cittadina che ad essa si sottrae. Come non può non avvertire una scrittura segnata dal senso di perdita che non si limita a restituire integralmente al lettore la realtà ma la trasforma cercando di affermare una soggettività più attiva, consapevole e dissenziente dello scrivere che appare sospetta rispetto alle certezze del partito. Solo qualche anno prima a Wolf sarebbe parso inconcepibile raccontare la storia di una cittadina della DDR che desidera condurre una vita indipendente, ribellandosi alle costrizioni sociali, un tema vietato tanto più che si sviluppa all’insegna del fallimento e della morte in contrasto con l’ottimismo socialista.

Leggere dunque Riflessioni su Christa T., pubblicato dalle Edizioni e/o nella traduzione di Amina Pandolfi, che meriterebbe una nuova edizione, diventa quindi un passaggio necessario per comprendere l’estetica di Christa Wolf e leggerne la carta di identità letteraria. Sono pagine infatti in cui assistiamo ad una triplice operazione di riflessione: su una creatura diversa dal sistema che fa proprie le rivendicazioni dell’intimo nei confronti del globale; su una voce narrante che si specchia nella coincidenza del nome del titolo e espone sé stessa al riesame autocritico di membro attivo e responsabile di quel collettivo da cui, dopo un clamoroso scontro con l’apparato, prende le distanze; su una politica culturale della DDR che pretende, pena la non pubblicazione o l’invio al macero dei libri, dai propri scrittori figure sempre più esemplari e modelli da seguire ma che si fa cianotica nel vedere una donna anticonformista nel suo bisogno di autenticità e nel rifiuto di essere una pedina.

Tra le ricostruzioni delle vicende biografie di Christa T., dagli anni del nazismo all’adesione alla DDR, dalle sue esperienze di insegnante e al rifugio nella malattia, emerge una rottura rispetto alla soffocante normativa pedagogica del partito. Wolf infatti mette a fuoco, sotto i dati delle statistiche ufficiali e la liscia superficie della storiografia che non sembra recare traccia delle istanze del singolo, grumi del disagio del singolo che, come un personaggio di una pièce teatrale ben costruita, deve recitare sul palco un copione scritto dal partito e che, privato dall’esternare il proprio intimo sentire, evidenzia le mutilazioni interiori di quanti, creature sconfitte, si trovano passivi davanti al grande progetto collettivo socialista.

Reagire con la scrittura ad una situazione di disagio e di inquietudine: questo spinge Wolf a scrivere Riflessioni su Christa T. Ma sarà una caratteristica rintracciabile anche nelle opere successive. Perché, esulando dalla trama, scrivere diventa il mezzo per liberarsi da un senso di conflitto che è di natura politica e riguarda il suo impegno di intellettuale. Cosa è accaduto? Pochi anni prima si è celebrato l’XI Plenum del Comitato Centrale della SED: anziché preoccuparsi dei reali problemi del paese, la politica dichiara guerra agli scrittori colpevoli di non osannare le fatiche del lavoro ma di avere diffuso falsi modelli e di avere così causato la corruzione morale delle generazioni più giovani. Wolf non ci sta, prende la parola e sottolinea come il socialismo manchi di forza attrattiva e che questo sia all’origine del fascino che la cultura occidentale esercita sui giovani. Il suo intervento viene talmente poco digerito che il suo nome viene cancellato della lista dei candidati ufficiali.

Christa Wolf, in altre parole, pone la questione di Mefistofele: mentre lei desidera discutere della crisi dei valori dei giovani, alla DDR interessa assegnare all’arte il compito di creare un Egmont e un Faust del socialismo, vale a dire un’estetica e una morale positiva. Certo, i due personaggi goethiani si presentano molto bene a fungere da modelli utilizzabili per fare forma alle problematiche dell’Egmont e del Faust contemporanei: il primo, l’uomo segnato dal daimon, dalla forza misteriosa che innalza e sconvolge la vita del singolo, è il nobile delle Fiandre che muore giustiziato perché insorge in difesa delle libertà di una terra contro la prepotenza dell’imperialismo spagnolo (leggasi: Occidente); il secondo è l’uomo caratterizzato dallo Streben, da un’indomabile ansia di agire, di realizzarsi senza negarsi esperienza alcuna, raggiungendo sempre nuovi orizzonti, ma anche colui che realizza solo pienamente sé stesso guardando agli altri come destinatari dei frutti della propria forza di varcare i confini imposti dall’uomo. Ed ecco allora il bisogno di porre la questione di Mefistofele, di un confronto, di un’alternativa vista come arricchimento del primo assunto. Non si tratta quindi di una banale contrapposizione bianco e nero ma il bisogno di riflettere su una società che, facendo volutamente a meno di altri interlocutori, ossia di una voce critica e scettica, ma pure sempre di adesione al socialismo, dovrebbe completarsi. La questione non verrà mai ufficialmente posta perché il dogmatismo avrà la meglio ma le Riflessioni fanno breccia nei lettori, passano clandestinamente di mano in mano, perché hanno la capacità di fotografare la pregnanza e l’urgenza di una realtà che tutti vedono.

Il rischio è che, non potendo dubitare del mondo, si inizi a dubitare di sé stessi?

Christa T. non soffre quindi di socialismo quanto di DDR, e il suo corpo somatizza le cesure e le sconfitte del blocco sovietico, è una sorta di Mefistofele che, solo e inascoltato, ha tentato di pungolare il Faust socialista anche solo per spingerlo a guardare il mondo con occhi diversi non resi miopi dall’ideologia. Avrebbe potuto come tanti fuggire dall’altra parte del Muro tra le braccia del munifico fratello occidentale, invece resta. Ma l’utopia comincia a convivere con la distopia e anche in questo testo si conferma l’assunto che «la Wolf tocca sempre punti dolenti, anche a costo di provare dolore lei stessa». Non fanno poi questo gli intellettuali come fu la scrittrice, ammesso che oggi ci siano ancora?

Claudio Musso

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