Anton Čechov morì di tisi, il 2 luglio del 1904. Aveva quarantaquattro anni. Morì nella Foresta Nera, a Badenweiler, una stazione termale, 425 metri di altitudine, non molto distante dalla città di Basilea.

Alloggiava, con la moglie Olga, presso l’Hotel Sommer, in una camera dal cui balcone aveva osservato a lungo, nei giorni precedenti, gli abitanti di Badenweiler entrare e uscire dall’ufficio postale, davanti all’hotel.
Restava lì a guardarli, tutto qui.

Faceva molto caldo, quell’estate, anche a quell’altitudine, e Čechov non riusciva a respirare, non riusciva a mangiare.
Il 29 giugno ebbe un collasso, e poi un altro il 30.
Il giorno dopo, più o meno a mezzanotte e mezza, si risvegliò di colpo dal sonno in cui era scivolato. Chiese a sua moglie di chiamare il medico. Parlò di un marinaio: delirava. Olga tentò di applicargli sul petto una borsa del ghiaccio – un po’ di sollievo – ma lui sorrise tristemente: “Non si mette il ghiaccio su un cuore spento”, disse.
Il dottor Schwöhrer arrivò verso le due, nella calura ancora intensa della notte. Cechov alzò la testa, quando lo vide entrare. Disse, parlando in tedesco: “Ich sterbe”.
Muoio.
Un’iniezione di canfora fu inutile: il cuore non reagiva. Fu allora che il dottore, del tutto consapevole che fosse ormai la fine, ordinò una bottiglia di champagne. “In fretta”, disse, parlando al telefono con un addetto alla reception.
In fretta.
Venne portata la bottiglia, Anton prese un bicchiere, se lo portò alla bocca, bevve un sorso.
“È molto tempo che non bevo champagne”, disse, poi si voltò sul fianco sinistro e smise di respirare.
Champagne fu la sua ultima parola.
Erano le tre del mattino.
Una grossa falena dalle ali nere urtava contro la luce accesa, ancora e ancora; quando riuscì a uscire dalla stanza, restò solo il silenzio, prima che il tappo, in quel grande silenzio, saltasse nuovamente fuori dalla bottiglia e rotolasse a terra. Un po’ di schiuma colò sul tavolino. Il tappo, adesso, era sul pavimento.
Olga, vicina a suo marito, gli teneva la mano.

L’ufficio postale, dalla parte opposta della strada – quello che Čechov aveva osservato così a lungo nei giorni precedenti – era soltanto un edificio buio.
In ogni caso, perché così è la vita, presto sarebbe ricominciato il solito via-vai: gente che entrava e usciva. Era un’estate calda, a Badenweiler. Era una bella estate.
Qualcuno – un cameriere – doveva aver portato nella stanza quella bottiglia di champagne, con un secchiello per il ghiaccio e tre bicchieri.
Il biografo di Čechov, Henri Troyat – dalla cui biografia ho tratto ciò che vi ho raccontato – non spende, riguardo a quel qualcuno, neppure una parola. Per quale ragione avrebbe dovuto? Non era che un dettaglio come un altro. In quella stanza stava morendo – e poi se n’era andato – uno degli scrittori più grandi che il mondo abbia mai conosciuto. Era un dettaglio, quel qualcuno, del tutto indifferente.
Eppure, penso, ad Anton Čechov sarebbe interessato. “Perché è importante”, avrebbe forse detto, se solo il suo cuore avesse ricominciato a battere, in quella stanza dell’Hotel Sommer, la 211, nella Foresta Nera, se avesse potuto rimettersi a sedere, abbracciare sua moglie e poi dire al dottore: “Grazie per essere venuto. Grazie molte”.
A lui quel dettaglio sarebbe interessato. I suoi racconti erano costellati di dettagli, come ogni buona storia – ogni romanzo e ogni racconto – dovrebbe essere.
“È molto importante”, credo che avrebbe detto. “Non si dovrebbe proprio trascurarlo.”
La vita è fatta di dettagli, penso. Il suo mistero inesauribile passa dentro i dettagli. Joseph Conrad ha scritto: “Compito di uno scrittore è rendere il massimo grado di giustizia possibile all’universo visibile”.

L’universo visibile, già. Perché il visibile allude all’invisibile.
È solo raccontando ciò che vedi – e facendolo al meglio – che puoi sperare di sfiorare, sfiorare appena e intravedere, ciò che nessuno vede.
Ora dobbiamo correre – come facciamo spesso – avanti nel tempo. Dobbiamo spostarci nello spazio.
È il 1987, l’inizio di quell’anno. Siamo nello stato di Washington, la parte nord-ovest degli Stati Uniti.

Un uomo sta scrivendo un racconto, intitolato dapprima The mortician, in seguito Room service, poi Champagne – il titolo definitivo, lui forse lo intuisce già, non sarà poi tra questi. L’uomo che sta scrivendo ha quarantanove anni. Tiene una sigaretta tra le dita, batte sui tasti della sua macchina da scrivere.
Nel mese di settembre, tra molto poco dunque, scoprirà di essere malato – cancro ai polmoni; polmoni, sì: in un certo senso, la stessa sorte che è toccata a Čechov – e che il suo tempo corre verso la fine.
Il nome di quell’uomo è Raymond. Gli amici e sua moglie Tess – la sua seconda moglie, scrittrice e poetessa – lo chiamano Ray.

Ha divorato la biografia di Troyat, di cui vi ho detto prima. Considera Čechov uno dei suoi maestri.
Proprio per questo desidera da un pezzo scrivere di lui; adesso, finalmente, in quell’inverno del 1987, nel freddo dello stato di Washington, dove risiede tra le città di Syracuse e Port Angeles, è ciò che sta facendo.
È sulla sua morte di Anton Čechov che Ray lavora adesso, mentre sbirciamo nel suo studio, schiacciando i tasti della sua macchina da scrivere.
Ha indosso una maglia blu, o nera. Capelli brizzolati e sopracciglia folte. La sigaretta accesa, un portacenere stracolmo. Ancora giovane, ma già verso la fine.
È la bottiglia di champagne, in un passaggio di quella biografia, che l’ha colpito molto: il fatto che il dottore, accorso al capezzale del malato, abbia pensato di ordinarla.
Scriverà più tardi:
Nobody had asked for champagne, of course; he just took it upon himself to do it. But this little piece of human business struck me as an extraordinary action. Before I really knew what I was going to do with it, or how I was going to proceed, I felt I had been launched into a short story of my own then and there… The only thing that was clear to me was that I thought I saw an opportunity to pay homage – if I could bring it off, do it rightly and honorably – to Cechov, the writer, who has meant so much to me for such a long time.
Per scrivere parte di quel racconto – la malattia di Čechov, l’emorragia in un ristorante di Mosca, il lungo viaggio verso la Germania, il suo soggiorno a Badenweiler – Ray usa la biografia di Troyat.

Ma poi, poiché il suo nome è Ray ma il suo cognome è Carver, c’è una seconda parte: è proprio in quella parte, schiacciando sopra i tasti, fumando sigarette, che Raymond, scrittore di racconti, prende il volo.
Lo champagne fu portato nell’appartamento da un giovanotto biondo dall’aria stanca e i capelli arruffati. I pantaloni della sua uniforme erano gualciti e senza piega, nella fretta di abbottonarsi la giacca aveva saltato uno degli occhielli. Il suo aspetto era quello di qualcuno che stava riposando – abbandonato su una sedia, sonnecchiando – quando, santo cielo!, alle prime ore del mattino un telefono aveva squillato in lontananza e subito dopo il suo superiore lo stava scuotendo e gli ordinava di portare una bottiglia di Moet alla 211. “E in fretta, capito?”
Il titolo definitivo, quello che conosciamo, è Errand. Per noi, il titolo è L’incarico.
È questo il cuore del racconto – l’incarico – il cuore che prende a battere quando quel cameriere, che ora, scrive Carver, “sembrava tutt’altra persona” – rasato, i pantaloni ben stirati, ogni bottone al posto giusto – ritorna nella stanza in cui giace ancora il cadavere di Čechov, portando un piccolo vaso con tre rose.
Le offrì a Olga, battendo leggermente i tacchi. Lei si fece da parte e lo lasciò entrare nella stanza. Era venuto, disse, a riprendere le coppe, il secchiello e il vassoio, certo… La signora si diresse alla borsetta e ne tirò fuori una manciata di monete. Poi estrasse alcune banconote. Il giovanotto si passò la lingua sulle labbra: gli stava per arrivare un’altra grossa mancia, ma perché? Cosa voleva che facesse per lei?
Cosa voleva che facesse?
Qual era l’incarico per cui quella signora, la moglie del defunto, lo stava pagando?
Non aveva mai servito ospiti del genere. Si schiarì di nuovo la gola.
Di tutto questo, vi dicevo, non trovereste nulla, leggendo la biografia di Troyat. Neppure una parola.
Ciò che è appena accaduto – il cameriere che ritorna, il vaso con le rose, i soldi – e ciò che sta per accadere, mentre sbirciamo Ray chino sopra la macchina da scrivere, è nella mente, nell’immaginazione, di uno scrittore di racconti. Uno scrittore come lui.
Significa qualcosa, per lui, qualcosa d’importante.
Ma soprattutto, ricordatevi, c’è ancora il tappo sul pavimento della stanza, a cui nessuno dei presenti, almeno fino ad ora, ha prestato attenzione.
Qualcosa che pare invisibile, eppure non lo è.
Aveva quarantanove anni, Carver, in quell’inverno nello stato di Washington. Era nato a Clatskanie, in Oregon, il 25 maggio del ‘38.

Aveva due figli. Aveva, dopo mille lavori – sempre a corto di soldi, tra grandi difficoltà – pubblicato raccolte di racconti e poesie. Aveva bevuto gran parte della vita, ma poi era riuscito a smettere.
Lasciamo lì, per il momento, a occuparsi – no, anzi, a preoccuparsi – di un cameriere all’apparenza anonimo, entrato per caso nella Storia, almeno quella della letteratura, l’unico ad aver notato un tappo mentre la Storia accade.
Ad Anton Čechov sarebbe piaciuto lo sguardo su quel tappo, quel piccolo dettaglio. Avrebbe amato il giovanotto biondo, un ragazzo qualunque, che “continuava a stringere il vaso in una mano e se ne stava là come paralizzato”.
Ben fatto, avrebbe detto.
Una persona qualunque non è mai, mai qualunque, avrebbe detto, e noi due lo sappiamo, vero, Ray?
L’avrebbe detto, sì, se solo avesse potuto lanciare uno sguardo sul futuro, spostandosi da una stazione termale in Germania fino allo stato di Washington, sbirciando come noi, oltre la porta di uno studio, un uomo che stava scrivendo un racconto, schiacciando i tasti della sua macchina da scrivere, con una maglia nera oppure blu, la sigaretta in mano, nel freddo dell’inverno del nord-ovest degli Stati Uniti.
Un uomo qualunque, e dunque eccezionale. Un uomo di quasi cinquant’anni, nato nell’Oregon, un uomo che chiamavano Ray.

Elena Varvello
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