L’isola che mi amava di Stefania Aphel Barzini è un romanzo in cui le suggestioni, potenziate e rese vivide dai cinque sensi, arricchiscono e contribuiscono a illuminare una calda e incantata dedica all’ isola di Alicudi, l’isola più lontana del settore occidentale dell’arcipelago delle Eolie.

“A volte la luce allagava l’Isola, la vedevi riflettersi sui muri, sulle rocce, irrigare le piante, espandersi e disperdersi tra i cespugli, scivolare a valle e perdersi nel mare.”

L’autrice, raccontando in prima persona, narra di come le Eolie, e in particolare Alicudi, l’abbiano conquistata sin dalla prima volta che la sua famiglia acquistò una casa a Stromboli successivamente poi venduta. Facile invaghirsi di Stromboli, farsi rapire dal nero rugoso e mistico della pietra lavica, come dal verde brillante della sua sponda piena di vegetazione o dalle case bianche e dai gozzi a righe variopinti dei pescatori sulla spiaggia nera.

Quel seme piantato anni prima, quell’attaccamento e il pieno intendimento che lo scorrere delle giornate può e necessita di essere diverso su quelle isole, germoglia e cresce impetuoso una volta conosciuta Alicudi.

La scrittrice, autrice delle Gattoparde (2022) e di altri saggi, nonché collaboratrice dell’Istituto Italiano di Cultura negli Stati Uniti, per una serie di eventi e per il suo profondo legame con le Eolie, decide dunque di acquistare una casa ad Alicudi.

Barzini, con una prosa attrattiva e poetica, ci illustra in principio la differenza tra le isole, dividendole tra bianche e nere, tra più longeve e meno; ricostruisce il suo primo approccio alla vita sull’isola, le difficoltà di reperire alcuni prodotti alimentari, la consegna dei container dell’acqua, o la complicazione nel muoversi. Criticità che nel corso delle pagine e della narrazione si trasformano nelle qualità più apprezzabili della vita sull’isola: un assaporare autentico di una semplicità dimenticata nella esistenza urbana.

Suddividendo i capitoli nei cinque sensi, l’autrice attiva nel lettore tutti i ricettori sensibili al fine di renderci più concreta la lettura, trasformandola in una esperienza sensoriale.

“Erano i giorni dello scirocco che fiaccava gli animi, mi lasciava smembrata, slavata, infiacchita, una spugna bagnata spalmata sul cervello. Allora l’aria si tingeva di rosso, il letto si trasformava in una graticola e tutto ciò che toccavo era bollente, libri, bicchieri, abiti. Allo scirocco ci si deve arrendere senza combattere, sprofondare nella sua brodaglia, confondersi con la sua umidità, smarrire i confini. Accettarlo con ironia, disincanto e rassegnazione. Aspettando che arrivi il maestrale.”

Dalle pagine del romanzo non solo si evince un profondo e quasi antico rapportarsi alla natura: il mare, gli scogli, i venti, la vegetazione, la siccità, le improvvise precipitazioni, gli animali, ma anche una profonda e maturata conoscenza e un solido rispetto per gli abitanti, per la loro storia orgogliosa, per l’attaccamento della loro terra e del loro mare, e per il coraggio di vivere con fierezza e stoicità l’alternarsi delle stagioni su un’isola che tanto dona, ma che esige una certa dose di obbedienza e osservanza.

Tra le proposte editoriali ritrova sede il semplice desiderio di uno scrittore di raccontare, di ripristinare alcuni insostituibili legami che l’uomo necessita di avere con la natura.

Perdersi e ritrovarsi, che sia in un bosco alle prime luci dell’alba quando i raggi spezzati entrano in collisione con gli abeti, che sia una poderosa scodata di balena stagliata in un tramonto mediterraneo, questi romanzi e in particolare L’isola che mi amava, ci permettono un breve ma non effimero contatto con la pura e incondizionata semplicità della natura.

“Quando l’isola è all’ancora può restare immobile per giorni, quasi pietrificata; è allora che diventa perfetta, è come ritrovarsi d’un tratto a fianco di Dio.”

Caterina Incerti