Nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici.
Pubblicato a puntate nel 1941 sulla rivista “Lettere d’oggi” e poi completo, per la stessa, nel 1942, La spiaggia è il secondo romanzo di Pavese.
La trama è presto detta: Doro, dopo il matrimonio con Clelia, si trasferisce a Genova, allentando il rapporto di amicizia con il narratore-protagonista, un professore sui trent’anni. Dopo alcuni anni, i due amici sentono il bisogno di ritrovarsi e compiono una gita, un vero e proprio vagabondaggio, breve e violento, per le Langhe, cercando di rivivere i luoghi della loro infanzia. Ma è solo un abbandono momentaneo, perché non riescono ad aprirsi completamente l’uno all’altro. Doro deve tornare dalla moglie e il protagonista viene invitato nella loro villa al mare in una non precisata cittadina ligure. Qui Clelia, la raffinata e affascinante moglie di Doro, è al centro di una corte di personaggi borghesi di vario tipo, tra cui spiccano Guido, un giovane mediocre che nasconde l’amante ed è segretamente innamorato di Clelia, e Berti, un giovane scanzonato, ex-allievo del narratore, che finisce con l’innamorarsi a sua volta della più matura Clelia. “Al mare, dove i giorni non contano”, nell’ambiente frivolo e sonnacchioso della spiaggia, il narratore non riesce ad integrarsi e diventa spettatore impotente della crisi, mai esplicitamente affermata, che aleggia tra Doro e Clelia. Un senso di desiderio e insieme di mancanza, di malinconia e incompiutezza, quasi la minaccia di una possibile disgregazione pervade tutto il racconto della villeggiatura fino al suo clou, quando viene annunciata la gravidanza di Clelia e i due coniugi ritornano improvvisamente a Genova in auto. La loro partenza segna la fine della vacanza e delle illusioni del protagonista, che a sua volta va via perché “nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici”.
In una lettera del luglio ’41 indirizzata all’editore Giambattista Vicari, Pavese definisce La spiaggia “un romanzetto che poi nel corso della stesura s’insabbiò per intero”; nel ’46, in un saggio sulla sua attività precedente, afferma che “il mio romanzetto non brutale, non proletario e non americano – che pochi per fortuna hanno letto – non è scheggia del monolito. Rappresenta una mia distrazione, anche umana, e insomma, se valesse la pena me ne vergognerei. È quello che si chiama una franca ricerca di stile” (cf. C. Pavese, L’influsso degli eventi, 5 febbraio 1946 in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, p. 224).
Se non che la noncuranza, quando non lo sprezzo con cui Pavese parla di questo momento della sua scrittura, non deve trarre in inganno. Come si evince, infatti, dalla sua stessa memoria del ’46, La spiaggia costituisce il frutto di un momento di esplorazione e ricerca, dopo Paesi tuoi, fondamentale per la produzione pavesiana successiva. Vi sono, infatti, già condensati tutti i tratti che ne diverranno topici: la nostalgia irreparabile per l’infanzia perduta; la ricerca di una vita primigenia nella campagna e il motivo della fuga dalla città; l’indagine sui limiti della classe borghese; l’educazione sentimentale e il passaggio sofferto dall’adolescenza alla maturità; il sentimento tormentato dell’amicizia; una certa visione ferina della donna; il sentimento di estraneità dell’io e la coscienza dell’impossibile relazione con l’altro.
Per tutti questi motivi La spiaggia è un romanzo tutt’altro che leggero o assimilabile a un mero esercizio di stile; è piuttosto un romanzo di atroce nostalgia, tanto più acuta quanto meno esplicitamente espressa. È qui, infatti, che Pavese mette a punto e perfeziona la sua arte magistrale di guardare le storie di traverso, facendole intuire in controluce; l’arte di dire per mezzo del non dire.
Maria Consiglia Alvino
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