Ci sono oggetti talmente noti nell’immaginario comune da essere chiamati con il nome proprio. È il caso della Moka ideata da Alfonso Bialetti nel 1933, forse il prodotto di design italiano più famoso nel mondo e oggi vera e propria icona del “Made in Italy”.
Ed è proprio da questo oggetto che Chiara Alessi in Le caffettiere dei miei bisnonni (Utet, 2018) inizia il suo ragionamento sul senso delle icone e sulle loro sorti all’interno della cultura materiale italiana contemporanea. Del resto, la Moka è per Chiara Alessi una questione di “famiglia”, come lei stessa racconta.
Alfonso Bialetti e Giovanni Alessi erano amici, vicini di casa, vicini di fabbrica ad Omegna lungo le rive del fiume Strona, ma erano diventati anche consuoceri dopo il matrimonio dei loro figli: Carlo Alessi e Germana Bialetti. Grazie a questo matrimonio due delle più grandi aziende di design italiano si trovarono ad essere un’unica famiglia che ha prodotto in questi anni oggetti straordinari, ma anche interessantissime riflessioni sul design stesso. Carlo e Germana erano i nonni di Chiara Alessi, Alfonso e Giovanni i suoi bisnonni. Lei è una delle voci più interessanti e originali degli studi di cultura materiale italiana, autrice di diversi volumi colti, curiosi e accattivanti.
Ma questo libro, in particolare, è uno di quelli la cui lettura può essere sicuramente utile anche a chi non necessariamente si occupa di design, poiché ragiona sulla capacità della cultura italiana di essere rappresentativa, sulla capacità, cioè, del nostro sistema culturale e produttivo di creare “icone”, ossia oggetti capaci con la loro significatività di superare i limiti del tempo e dello spazio.
In effetti, quando pensiamo al design italiano, ci vengono in mente alcuni oggetti simbolo: la Fiat 500, la lampada Arco, la Lettera 22 della Olivetti, la radio Cubo Brionvega e certamente tanti altri, ma comunque sempre oggetti prodotti più o meno tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Dopo di che non esiste nulla nella produzione contemporanea capace di avere la stessa forza iconografica. Perché? “È finita l’epoca degli oggetti icona o è finita la stagione della cultura materiale italiana in grado di rappresentarla?” si chiede Chiara Alessi. Probabilmente nessuna delle due. Probabilmente il problema è da porsi in termini diversi che non riguardano solo il design, ma la cultura in generale e la sua relazione con il tempo e le parole.
Ci vuole tempo perché un oggetto di design diventi un’icona. È vero, ma non tanto un tempo diacronicamente inteso, quanto un tempo sincronico. Non è invecchiando che si assume il ruolo di simbolo, ma interpretando in maniera nuova il proprio contesto e innescando veri e propri fenomeni sociologici, nuove pratiche abitative, cambiamenti potenti nelle vite delle persone. L’IPhone è sicuramente un oggetto icona del nostro tempo – chiaramente non italiano – proprio perché ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, di relazionarci agli altri, di custodire i nostri ricordi e di vincere le distanze. E così facendo ha introdotto nuove parole nel linguaggio quotidiano, oggi ormai attestate dai più autorevoli dizionari. Non semplici slang, ma lemmi nuovi per significati nuovi, per modi nuovi di esistere.
Lasciando da parte il caso emblematico dello smartphone è assolutamente vero però che: “nell’epoca attuale del «presente continuo» (secondo la celebre definizione di Douglas Rushkoff) lo spazio e il tempo si sono compressi: presente, passato e futuro convivono […] siamo immersi nel tempo istantaneo dei social in cui abbiamo la conferma immediata di essere letti, visti, approvati, e dove i messaggi, le immagini o i video scambiati si cancellano automaticamente dopo essere stati visualizzati”.
E in questo eterno presente, non c’è spazio per ragionamenti critici, capaci di cogliere assonanze e dissonanze tra oggi, ieri e domani. I prodotti industriali globali nel tentativo di raggiungere quanti più consumatori possibile, annullano qualsiasi legame con lo spazio geografico e con il tempo, ma in questo modo finiscono anche per rompere ogni legame con la storia, intesa come riflessione critica sugli accadimenti umani. Ecco perché gli oggetti di oggi non sono più simboli, ma semplici “segnaposto” di un momento e la loro funzione primaria non è certo quella di “funzionare” quanto quella di “emozionare”. Non più icone, ma “feticci”.
Vale per il design, vale per la moda, vale per la letteratura e purtroppo vale anche per le idee. E questo è un dato di fatto.
Nel ragionamento di Chiara Alessi però, il punto notevole sta nella conclusione, quando scrive: “Però sarebbe sbagliato imputare questo fallimento solo al mancato contributo al mondo del progetto […] senza tener conto più in generale dell’epoca storica nella quale si inserisce questo contributo, che nel giro di un quindicennio ha assistito a una spirale di paradigmi sempre cangianti per rappresentare sé stessa […]. Ma ancora più sbagliato è considerare la scomparsa di icone nella contemporaneità, di cui si prende atto, come un fallimento, o un rimpianto. Se per moltissimo tempo il design si è interessato ai ‘chi’ e ai ‘cosa’ – a icone d’autore quindi – […] l’attenzione inizia a dirigersi sui ‘come’, e sui ‘perché’.”
Il design non produce più icone, ma allo stesso tempo il concetto di iconicità necessita di parametri nuovi, capaci di contrassegnare in modo corretto gli elementi propri della complessità del presente. Il design non produce più simboli, ma allo stesso tempo mancano le parole specifiche per definire questa iconicità. “E laddove non c’è un linguaggio progettato nel rapporto con un dato tempo, difficilmente si producono icone”.
E allora forse il problema non è tanto nella mancanza di oggetti da chiamare con il nome proprio, ma nell’assenza di un pensiero realmente critico, capace di capire in profondità, di andare oltre la superficie, di avere il coraggio di “nominare” in maniera nuova i tratti complessi del presente. Un tempo fu il Caffè, oggi è una Caffettiera. Per fortuna, però, non mancano mai libri capaci di svegliarci.
Loredana La Fortuna
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