Dopo tre anni dalla vittoria del Premio Strega con Spatriati, Mario Desiati è tornato con un romanzo sulle identità e le radici, Malbianco, edito da Einaudi: un rovesciamento appassionato del libro precedente, con diverse ambientazioni e voci narranti differenti. La struttura “a matrioska” del romanzo conduce subito i lettori e le lettrici in una sfida aperta: non si tratta di una storia semplice ma di una lettura ambiziosa che attraversa la storia di una famiglia, quella del protagonista Marco Petrovici, e la Storia del Paese, di un’Europa sotto il sangue e la neve.
La vicenda parte da un disagio: il protagonista inizia a svenire, sopporta attacchi di panico, sente che deve comprendere la ragione di questi sintomi, una volta escluse delle patologie. In Spatriati Francesco Veleno era un uomo stanziale, inquieto, in Malbianco Marco Petrovici affronta i fantasmi della sua anima, maneggiando la materia più sconosciuta: quella dei suoi avi.
Malbianco è il nome di una malattia che colpisce gli alberi ed è ovviamente un titolo metaforico, perché l’infiammazione del tronco in questo caso si riferisce all’albero genealogico di una famiglia, i Petrovici, su cui il protagonista inizia a “indagare”…
“Indagare il passato è quello che Marco Petrovici fa per sistemare il presente e il futuro. Non è semplice trovare una definizione unica e chiara di questo romanzo: me ne accorgo quando sono impegnato nelle varie presentazioni e credo che dipenda dal fatto che questa narrazione mescola passato, presente e futuro come sono mescolati l’andata e il ritorno, partire e restare, tutti temi che ho cercato di tenere insieme seguendo varie ispirazioni, anche dei luoghi, in primis il bosco. Tematiche a cui ero legato anche in Spatriati, infatti, mi è successo di parlare di Malbianco quando portavo in giro il libro predecessore”.
La gestazione del libro inizia diversi anni fa, nel 2018, quando era ancora un file di appunti preziosi. Potremmo trovare una parola guida per la stesura di questo romanzo?
“Spirito. Credo sia la parola guida e illuminante di questo progetto, o almeno una di loro. Volevo partire da un personaggio che avesse delle cose in comune con me a partire dall’inquadratura generazionale e della conoscenza di alcuni territori. L’esergo di Malbianco è di Leonardo Da Vinci: “e raccolti li spiriti, e con quelli apre e spalanca le porte alla immaginazione” è esplicativo di quello che appunto fosse il mio intento narrativo: dare parola e corpo agli spiriti del passato e della nostra identità, che si sviluppano anche attraverso la terapia e la poesia”.
“È come quando gli archeologi si imbattono nel frammento di un vaso antico. È la tecnica del coccio. Da un pezzettino minuscolo si ottiene la proiezione del tutto”: è una delle frasi più illuminanti del romanzo perché spiega il meccanismo di ricerca che Marco Petrovici intraprende contro ogni non-detto famigliare per riemergere dai suoi stati ansiosi, dagli svenimenti che iniziano a susseguirsi. Malbianco è frutto anche di un lavoro di ricerca storica molto dettagliata, a volte rimossa, studiata poco e male sui libri di scuola…
“Il libro si fonda su una memoria individuale e collettiva, senza la quale non può esserci un futuro. L’ho scritto principalmente tra il 2020 e 2021, che sono due periodi pandemici ed ero in Germania e grazie all’Istituto italiano di Cultura di Berlino ho potuto documentarmi e dare forma alla mia idea narrativa. Le storie che ho trovato sugli italiani “badoglini” sono arrivate a noi spesso imprecise e incomplete, anche perché come racconto nel romanzo, molti reduci da quelle esperienze non raccontavano davvero cosa fosse avvenuto, come fossero riusciti a tornare in patria, cosa avessero patito e provato. Da qui la vicenda di zio Pepin, fratello del nonno del protagonista, considerato la pecora nera della famiglia Petrovici di cui nessuno vuole parlare, che suona il violino e tutti credevano muto dopo il ritorno dalla guerra ma che muto non è. Definito disertore, che forse si è salvato grazie alla musica, che nel romanzo ha una funzione salvifica, appunto. Marco sente che occorre ripercorrere la grande storia e quella della sua famiglia per andare avanti, per uscire da uno stallo personale”.
Nel romanzo ci sono diverse ambientazioni e si parla di epoche differenti ma su tutte svetta il bosco che è lo scenario dominante con i suoi animali, i suoi colori, i suoi odori. E non manca il mare, la costa…
“Si tratta di due scenari letterari e interni molto diversi ma che hanno dettato l’alternanza narrativa della storia: il bosco storicamente per tante culture rappresenta il mistero, l’oltre vita, è lo stigma delle paure, lo ritroviamo nelle fiabe. Sappiamo che dobbiamo attraversarlo, che possiamo perderci, che nasconde tesori e magie. Ho davvero passato parte della mia infanzia nel bosco: ho dei ricordi vivi che custodisco gelosamente. Il mare per noi pugliesi ha un potere evocativo molto forte: il mare per alcune comunità è il luogo dei morti e dei non ancora nati. Essere venuto al mondo in Valle d’Itria ha certamente influito su questi scenari dato che sono presenti sia il mare, sia i boschi”.
Dai boschi di Taranto ai campi di prigionia tedeschi, dagli asini della bisnonna Addolorata alle ninne nanne yiddish: il libro prende strada tra storia e immaginazione, cercando i fantasmi con cui mettere a posto il presente…
“Lo psicoterapeuta romano a cui Marco Petrovici si rivolge suggerisce “di studiare e di immaginare. In questo modo potrà amplificare la sua storia, dunque trovare i punti di contatto con la realtà e capire quello che manca”. Ed è esattamente da lì che occorre ripartire, con l’aiuto non solo dell’analisi, ma anche dell’immaginazione appunto e della ricerca senza paure delle proprie origini”.
Quanto l’ hanno ispirata i suoi antenati nella costruzione di Malbianco?
“C’è una parte finale del romanzo, dedicata alla bibliografia e ai ringraziamenti in cui scrivo “questo libro, come tanti libri che si scrivono, è anche un modo di stare vicino a persone che non ci sono più, oppure sono lontane, così lontane da sembrare irraggiungibili […]. Queste persone così importanti per me hanno tutte lo stesso cognome, un cognome che spesso gli altri sbagliavano a scrivere. Per come le ricordo io avevano tanto pudore per cui basta così, e con questo libro ho voluto sentirmi vicino a loro ancora un po’. Ecco, credo che la risposta sia tutta qui. Volevo fare un romanzo storico e di “viaggio nel tempo” e per farlo alla mia maniera ho unito diversi punti, trasfigurando diverse cose”.
Antonella De Biasi
E tu cosa ne pensi?