“It is on the occasion of their one hundred thousandth bicentennial that I have recalled all those other mothers and their histories” (G. Paley, Other Mothers).

Il femminismo senza pratiche non esiste. È una pianta senza radici. Questo libro di Giulia Siviero non è solo un manuale delle pratiche femministe; è una mappa che unisce punti e accadimenti avvenuti in tempi e luoghi diversi. Ma con la necessità di collegarli, come in una costellazione, perché è come se in fondo tutte le rivolte, i gruppi di sostegno alle donne siano accaduti e continuino ad accadere nello stesso spazio e nello stesso tempo: ora. Perché quella radice e matrice comune è tanto lontana, “dal fondo del tempo”, quanto presente. È una rabbia che non si è spenta. È una rabbia che sta lì da prima, da tempo, anche quando quel gruppo maggioritario discriminato ad uso e consumo della cultura patriarcale sembrava disorganizzato e cieco, servile e accondiscendente. Perché a forza di studiarlo questo nostro femminismo so che in fondo non è mai stato cieco, non è mai stato disorganizzato. È sempre stato covato nella stanza del telaio di Penelope, una rabbia ancestrale che ci portiamo addosso, una staffetta, una lancia che quelle donne a noi così vicine, -le nostre madri, le nostre nonne, a cui abbiamo visto chinare la testa, finire per convincersi che quella, l’accondiscendenza, era l’unica strada, e anche perderla la testa-, ci hanno consegnato. È un’unica forza che ci respira accanto, che ci soffia sui capelli, senza saperlo, la stessa delle suffragiste che col jiujitsu respingevano gli attacchi della polizia, quella delle madri argentine, madri elettive di tutti i figli scomparsi. Il femminismo senza pratica, senza rabbia, è una chiacchiera da salotto che lascia il tempo che trova, è un discorso ambiguo che possono usare anche le destre al potere, o tutti quegli uomini che dall’oggi al domani si riscoprono femministi. Il femminismo nasce dalle pareti porose dello spazio interno, domestico, è una sostanza genetica, materiale intrauterino, con cui ci siamo formate, cellula su cellula. Il tratto di penna con cui Siviero traccia la sua costellazione.

Questa rabbia sta accartocciata nelle parole che non si possono dire, il non-dicibile. È il linguaggio comune delle nostre nonne, sgrammaticato e analfabeta, quella storia che mi raccontava mia nonna quando, conciata come una befana, più vecchia della vecchiaia, mi faceva capire con un brillo negli occhi che lei se ne sarebbe voluta andare a Torino a fare la sarta. Quella storia che senza dirlo significava: fai qualcosa con la tua vita.

Mentre leggevo il libro di Siviero avevo sul comodino Just as I Though di Grace Paley, non per coincidenza ma perché certe letture si cercano. Grace Paley ha praticato il femminismo e la disobbedienza civile per tutta la sua vita ed ha inteso la letteratura come una finestra da cui far entrare il femminismo: la finestra aperta su un cortile dell’East Bronx, da cui la madre chiama il figlio, e che Paley ascolta anche se lei non è né la madre, né quel figlio. La finestra scura che incornicia la donna con le sue pene, quella donna immigrata che non avrà diritto ad una fetta della grande American pie, quella donna destinata a rimanere in quella stanza vile di clausura sociale e psicologica. (“She was destined, with here meaty bossiness, her sighs, her suffering, to be dumped into the villain room of social meaning and psychological causation”). Siviero e Paley stanno parlando delle stesse donne: quelle che desiderano tante cose e si sono accontentate di così poco.

La pratica nasce dal di dentro, dall’ambiente domestico, da Nina e Ludovica che ballano in cucina, come dice la dedica dell’autrice. La rivolta è anche una danza. Tutto nasce dallo spazio domestico, silenzioso, rumoroso, felice, infelice, luogo per eccellenza della reificazione della donna, in cui la donna è ridotta a oggetto e funzione ma in cui pure impara a trascendere. Anche spazio di creatività, di “rigenerazione”, in cui gli oggetti a cui si è ancorata la vita, assumono altri significati: diventano, come la scrittura domestica, forme di riflessione, spazi di autocoscienza. Scrive Bourgeois: “la maison était quelque chose de féminin. Elle appartenait à la femme, pas à l’homme». Bourgeois che ha fatto crescere la sua casa, quelle due stanze a New York, a misura della sua opera, dai disegni alle sculture del ragno gigante, dalle cose che sono contenute a quelle che contengono. I materiali hanno seguito gli spazi, per poi emanciparsi. E così Siviero costruisce i suoi titoli: “pipette senza tacchino” (quelle per l’autoinseminazione), “prendere la cosa per l’altro verso” (lo speculum), “non solo cucine, anche negozi per acquari” (per i tubi del Del.EM, la macchina per procurarsi l’aborto), “yogurt e grandi cospirazioni” (per quel poco che la polizia trovò nelle cliniche di Self-care), “donne in sciopero casca il mondo” (casca la terra e tutti giù per terra), “non si possono fare frittate senza rompere le uova”. Senza cambiare la storia, ma insistendo sulla continuità, sull’oralità, sulla pratica trasmessa di madre in figlia. Su quella cosa costretta tra quattro mura, che cresce in altezza, potenza e libertà. Come per Niki de Saint Phalle, artista plastica famosa per le sue Nana, donne giganti e multicolore, « les Femmes maisons, ce sont des femmes puissantes qui ont gagné en hauteur. Des sculptures énormes, très grandes, libérées. C’est quelque chose de joyeux. Donc, ça, c’est notre point de départ pour décliner cette thématique de la femme maison à travers plusieurs continents, plusieurs pays, plusieurs générations d’artistes ». Fino a diventare un’architettura. Dal silenzio alla rivolta.

Quella di Siviero è una storia in movimento, prendendo in prestito le parole di Cixous, il cui prodotto non è una parola-oggetto, un libro, un cofanetto, ma qualcosa che, pur restando scritto (un saggio ma narrato) è una spinta, un afflato, una specie di energia: una meravigliosa onda.

Scrivere, raccontare, raccogliere l’innominabile, quel non detto che comincia ad appropriarsi della pagina, dei manifesti. Quell’innominabile (contro l’altisonante verbo del padre che dirige destini) che è, ancora una volta, una parola ordinaria, una rabbia ordinaria, quotidiana, invisibile, il trauma di Annie Ernaux, quella che Nathalie Sarraute, scrittrice in cerca della parola, è il sottotesto, la “sous-conversation”. “Des mots que chacun d’entre nous… des mots si familiers qu’ils deviennent invisibles… des mots passe-partout… Tiens ? Passe-partout… Oui, des mots passe-muraille… qui nous font traverser… » Delle parole invisibili che finalmente lasciano vedere quello che c’è dall’altro lato.

Siviero decide di non mettere ordine nel racconto, di non seguire una cronologia, ma sceglie di saltare da un luogo ad un altro, da una voce ad un’altra in una storia trasversale che ingloba tutti i femminismi da quelli più conformi a quelli più radicali. Così ritroviamo Olympe de Gouges che interrompe il monologo androcentrico e pubblica la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1789), e accanto l’inchiesta di Milla Postorino su Noi Donne (1961) sui casi di aborti clandestini; le redstockings che si riuniscono a Washington Square, nel seminterrato di una chiesa metodista, per parlare dell’aborto e il manifesto delle 343 salopes (Francia 1971). 1972, Italia, la ragazza ricoverata d’urgenza a Trento e morta a Vienna, per perforazione dell’utero e setticemia con il processo che non si chiuderà mai. Una anonima libreria di Los Angeles, un gruppo di donne che osservano Carol Dower dare una lezione di anatomia femminile, alzandosi la gonna e usando le parole appropriate. Sims, uno dei padri della ginecologia moderna, studia l’apparato sessuale femminile usando come cavie, imprigionate nel retro dell’ospedale, senza anestesia, tre donne nere. Fino allá Plaza de Mayo, Buenos Aires, Dove le madri dei desaparecidos protestano davanti alla Casa Rosada. Ma questo non è il punto finale, “in ogni lotta ancora e ancora”.

Una prospettiva sincronica perché la rivolta, la disobbedienza civile, le forme della pratica femminista sono accomunate dallo stesso spirito: non chiedere permesso per entrare a far parte del mondo .“There is a light in every human being and that light has to be addressed first before anything else”, scriveva Grace Paley.

Silvia Acierno