Questi racconti di Anna Bertini ci fanno partire per un viaggio sinestetico negli anfratti dell’animo umano. Ci incamminiamo, sulla scia dei ricordi, spesso circonfusi dall’irrequietezza di chi non si sente mai al posto giusto, né nel tempo giusto: è una dimensione di memoria cercata ma dalla quale pure si fugge.
Personaggi come la sensitiva di Budapest Elina, la plumbea sognatrice Amalia Rosselli e Olga, coi suoi “mocassini color disperazione”, ci accompagnano in un universo femminile di incrollabile forza interiore. Donne che sanno rimarginare ferite profonde e continuare a camminare; donne che sostengono invisibili fardelli, pesanti come macigni, umiliate e percosse. Come l’acqua, modellano la pietra e superano gli ostacoli. Dolenti sono anche Lela e Simone, in Femminile plurale, che raggiungono un’insistita intimità fisica e mentale, scevra da sovrastrutture e imbarazzi. Le loro confidenze lambiscono, senza dettagliarlo, il trauma di una violenza subita e il loro progetto di rinascita estromette l’elemento maschile.
La gamma dei toni scuri si dipana nelle riflessioni dei personaggi; in loro albergano spesso disillusione, senso di colpa, amarezza, rassegnazione. Le loro cupe confessioni sono permeate dall’inquietudine, ma talvolta appare anche un certo equilibrio tra le istanze interiori. Così è per il protagonista di uno dei racconti più coinvolgenti: dopo il carcere, avrà la possibilità di aggrapparsi alla vita scrivendo e raccontando quanta morte incontrava in fondo alle bottiglie che beveva. Senza fronzoli e dettagli, la Bertini dà carne all’io narrante che ora, finalmente, tiene Qualcosa in pugno.
Nostalgia, coincidenze, malinconia e viaggio, spesso in chiave surreale, compaiono in ogni piega di questi racconti. Inevitabilmente, anche la nostra mente è indotta a vagare all’indietro sulle tracce di un passato più o meno recente. “Là dove il tempo ha rinunciato alle proprie architetture e la natura ha eretto un tempio che si regge su colonne di alberi nudi. Il nitore e la tranquillità sono testimoni silenziosi del rito. Tutto ha inizio, tutto è nuovo”, come efficacemente esprime l’autrice.
Altre presenze pervasive sono la poesia e la musica. Dal poema cavalleresco a Neruda, da Borges a Rilke, sono tanti i riferimenti letterari, a partire dal titolo. Infatti, sulle tracce del Duende – lo spiritello dell’inquietudine tratteggiato da Garcia Lorca, e per l’autrice incarnato da Antonio Tabucchi – ci immedesimiamo nelle sensazioni, anche scomode, dei personaggi; tutto si gioca attorno al tema cardine del tempo, caro anche al creatore di Pereira. È poi la stessa autrice a comporre una colonna sonora per la lettura, citando brani che spaziano dalle melodie di Satie alla potenza di Mick Jagger, dal tango al jazz; appassionata e grande conoscitrice di musica, crea il sottofondo perché le sue parole ci restino dentro.
Ogni parola qui è calibrata con perizia, per far rimbalzare il lettore dalla dimensione autentica del passato a quella del sogno e dell’immaginifico. La ricercata costruzione narrativa vuole riflettere la complessità delle sfumature morali e creare un viaggio intermittente tra la realtà e la dimensione letteraria e surreale, come nel racconto Le tracce del chicco di caffè. In questi racconti poetici, solo apparentemente disgiunti, filo conduttore è il flusso di coscienza dei protagonisti, un’attività che spesso rintaniamo negli angoli più reconditi. È quando non lo reprimiamo che probabilmente ci rendiamo conto di essere “molto più selvaggi, tutti, di come ci vogliamo sentire”.
Silvia Rebecchi
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