Demone custode, attraverso la sua voce narrante, scardina e destabilizza. Una voce potente dunque. Il narratore ci porta dentro il suo viaggio personale; si spinge verso altezze vertiginose senza indossare protezioni, libero di essere se stesso, privo di pesanti sovrastrutture, quelle che generalmente vengono innalzate da educazioni severe, talvolta bigotte, che perdono di vista l’individuo e la sua reale evoluzione.
Bisogna educare all’amore fuori, che non è come l’amore dentro. Preparare i cuccioli di essere umano alla liberta, che ha le sue regole, e risvolti, non sempre piacevoli come la parola libertà ci illude. «Mia madre non mi ha dato alcuna educazione. Si è limitata ad amarmi. L’amore che ha provato per me è stata la sola scuola. […] Nel giardino di mia madre sono stato la rosa più bella. Ora che il giardiniere non c’è più, finisce la gentilezza delle potature. L’amore non ci mette neppure al riparo dal disagio. Non guarisce l’ansia, il panico. Al contrario, ci pone nella condizione di diversità da un mondo che non ama. E’ la mia condizione. Me la porto dietro da sempre.»
La madre del protagonista è morta, e come ad ogni morte, si torna indietro, per ritrovare il proprio vissuto che si intreccia a quello del defunto; nel caso della madre, l’intreccio assomiglia alla doppia elica del DNA. «La ricombinazione genetica di cui sono il risultato è tale che puntando a un solo fine, quello di passare alla generazione successiva il gene della follia, ha inglobato tutti i difetti operativi che un processo alterato si porta dietro, tutte le contraddizioni, le tautologie, i disallineamenti, i limiti dell’essere umano. Li ho tutti», dice il protagonista, in questa sorta di memoriale funebre sui generis, ma non si limita a dirlo, ci racconta anche le sue esperienze, che per molti potrebbero sembrare strane, forti, talvolta inopportune, ma anche per lui stesso che, quando ce le racconta si mette dalla parte di chi osserva, ed è in grado di mostrarci entrambi i punti di vista.
La sofferenza e, l’amore, la cattiveria, le bugie, il non detto, e la libertà, fuoriescono come pus. Salvano la ferita. Non cancellano la cicatrice. La cicatrice è un segno nella mappa dell’evoluzione, come la farfalla tatuata nella schiena del protagonista è un segno per ricordare di volare, di desiderare, scegliere, o forse, è solo un modo per tentare di rimanere in equilibrio in «Un mondo che va dicendo che la bellezza è nell’occhio di chi guarda salvo riconoscerla quando è troppo tardi, quando prende le fattezze di una trave, […] La bellezza è l’occhio stesso che osserva e uno sguardo non ricambiato è un’attesa che si espande fino a dilatarlo, e dilatando dilata anche ognuno di voi. […] Siete grandi agli occhi di chi è solo.»
La madre. La madre è importante, genera, nutre, cura, poi muore, e da figli diveniamo esseri adulti.
– «Siamo figli per troppo tempo» –
Il testimone passa di mano, i geni anche, che non escono da un’ampolla, ma li portiamo dentro, di generazione in generazione, tra la vita e la morte, tante vite e tante morti. Anche i traumi vengono passati, sono debiti che bisogna pagare… Uscite ed entrate di scena con in mezzo la paura e l’opportunismo, non per il protagonista però, che dai suoi genitori ha imparato ad amare le storture della vita, senza rischiare di perdere la strada, che ha imparato a seguire la natura attraversando esperienze tanto grandi quanto folli. Tuttavia, per comprendere gli altri, è dovuto tornare indietro. Un passo indietro nel cammino della propria evoluzione. L’amore fuori non è come l’amore dentro.
«Con mia madre è morta l’idea che avevamo della morte»
Demone custode di Paolo Sortino è un libro tagliente, è una sferzata di aria gelida, è una denuncia, è un atto di amore, è un dono, un dono di un figlio, un figlio divenuto padre, che diviene individuo, né figlio dì né padre dì. Con una prosa precisa e ricca senza essere ampollosa, talvolta spiazzante, accompagna il lettore fuori dal mondo, dentro le vite.
«Tutte le svolte improvvise, gli incroci, i cambi di direzione in questa vita portano sempre al punto di partenza. Vivere appare come il procedere in un labirinto complicatissimo […]. Dopo ogni esperienza si fa più chiara la lezione che dobbiamo trarne ma è sempre la stessa lezione.»
Alessandra De Angelis
E tu cosa ne pensi?