Esiste un talento che appartiene solo ai grandi della letteratura. Questo talento consiste nel non dare scampo ai lettori, non imboccarli come un genitore davanti a un neonato ma lasciarli liberi. Questo talento appartiene a Jorge Amado che con incrollabile tenacia non definisce mai Teresa Batista, pur raccontandola in tanti modi diversi come pezzi di un ingranaggio a volte perfetto a volte storto. Ho pensato a un motivo per cui sono rimasta incollata a questa storia. Non so se sia valido. Ma mi viene in mente una parola e questa è cambiamento.
Scritto nel 1972, Teresa Batista stanca di guerra è la storia di una ragazza venduta a quindici anni al Capitano Duarte, di cui diventa schiava d’amore e di tortura. Ma non sarà la morte del suo padrone a renderle la vita facile. La violenza verbale e fisica che subisce è lo strumento vile per “sfemminizzare” Teresa, indomita fanciulla dall’imperdonabile bellezza, per renderla invisibile alla sua stessa vita. Bambina, schiava, puttana, amante, innamorata, pasionaria, ballerina, femmina. Teresa “Non è facile alle lacrime, non piange: ma gli occhi asciutti le bruciano”. Per lei il dolore e l’amore si muovono tra le luci e le ombre, i lamenti e i suoni di un Brasile avvolgente e crudele.
Un romanzo storico, per alcuni etnico. Un romanzo che assomiglia a un poema cavalleresco in cui il cavaliere è una donna (“bocca di miele”) scritto come eseguendo una danza che fa avanti e indietro al ritmo del samba. Una storia un po’ magica. Di quelle che fanno sembrare ancora tutto possibile nella vita, nel bene e nel male. Una lettura che va fatta a occhi bassi, dentro una luce che si accende e si spegne tra i barocchismi strutturali (analessi e flashback, cambi di voce) e le descrizioni violentemente a crudo. Lo stile di Amado minimizza nei punti più alti e massimizza nei momenti più distensivi (le scene al cabaret o nei bordelli). Se potessimo rinominare questo romanzo, che nonostante l’anno di pubblicazione resta un classico universale, in cui il sadismo di De Sade abbraccia l’umanità della narrazione postribolare sudamericana allora potremmo definirlo una sorta di “Antigattopardo” brasiliano: tutto cambia perché tutto si rinnova. La passione secondo Amado non ha niente a che vedere con il tormento borghese o gli psicodrammi d’appartamento. Il dolore qui è un sentimento sporco che alla pietas letteraria preferisce un umorismo a tratti sconcio.
“Dal momento che lo chiede con tanta buona grazia, giovanotto, io le dico: con le disgrazie basta incominciare. E quando sono incominciate, non c’è niente che le faccia fermare, si estendono, si sviluppano come una merce a buon mercato e di largo consumo. L’allegria, invece, compare mio, è una pianta capricciosa, difficile da coltivare, che fa poca ombra, che dura poco e che richiede cure costanti e terreno concimato, né secco né umido, né esposto ai venti, insomma una coltivazione che viene a costare cara”.
N.B. Le citazioni appartengono all’edizione del 1975 (Einaudi, trad. di Giuliana Segre Giorgi). Sulla copertina c’è questa foto di Ronald Mesaros. Devo ringraziare Sergio ed Elena, della libreria Les Bouquinistes di Pistoia, per aver messo il libro in vetrina. Altrimenti non l’avrei visto, che poi l’ho preso per un regalo e allora tutto torna.
Alessandra Minervini
Di Jorge Amado abbiamo parlato anche qui
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