«Non c’è cancello, nessuna serratura, nessun bullone che potete regolare sulla libertà della mia mente»
(Virginia Woolf)
Nella Georgia della prima metà dell’Ottocento, la giovane schiava nera Cora superando le proprie paure, non avendo più nulla da perdere, decide, come aveva fatto la madre Mabel prima di lei, di tentare la fuga dalla piantagione di cotone in cui vive in condizioni disumane, sottoposta alle peggio angherie, e comincia il suo viaggio verso la libertà. Servendosi di una misteriosa ferrovia sotterranea, Cora fa tappa in vari stati del Sud dove la persecuzione nei confronti dei neri imperversa crudele.
L’idea della ferrovia sotterranea, mai realmente esistita (è bene dirlo) è una trovata affascinante: rende appieno l’idea di una strada di ferro, solida, una linea retta potente che lavora rumorosamente nascosta agli occhi dei più, come faceva la rete di aiuto con i fuggiaschi neri per portarli in salvo. Congiunge il punto di partenza, al buio, sotto terra, quando sei schiavo, a quello di arrivo, dove sei una persona nuova (letteralmente con un’altra identità) e – forse – puoi respirare a pieni polmoni. Nel libro la ferrovia esiste: è una linea servita da treni che unendo stazioni nascoste, spoglie o arredate, porta lontano dalle piantagioni. Ma non ci sono orari o destinazioni precise per affrancarsi dalla schiavitù.
La ferrovia sotterranea racconta la avventure di una donna braccata, in fuga, che deve rinunciare alla propria identità per restare libera. Il romanzo è una sequenza di avventure, incontri in chiaroscuro, personaggi buoni e personaggi malefici. È come se i vari personaggi salissero a bordo del treno ad una fermata per scendere a quella successiva. Ne restano impressi pochi: ad esempio il cacciatore di taglie Ridgeway che deve trovare Cora per lavare l’unica onta subita in anni di onorata carriera (ovvero la fuga riuscita della madre di Cora), il bambino inquietante al seguito di Ridgeway.
È sì un romanzo che parla della schiavitù dei neri d’America, della crudeltà e della cattiveria umana, dei pregiudizi e della perdita dell’innocenza…. ma non è un semplice romanzo storico: è anche un libro sulla resistenza, sulla resilienza e sulla speranza, che stimola la riflessione su cosa significhi davvero libertà, senza fare la morale. Rimane impresso il capitolo in cui Cora è finalmente riuscita a scappare e seminare i suoi inseguitori, trovando rifugio presso una coppia di bianchi che cercano di aiutarla….ma la confinano per giorni all’immobilità più assoluta in una assolata angusta soffitta: niente rumori, nessuna parola, nessun movimento. Può chiamarsi libertà? “Essere liberi non aveva nulla a che fare con le catene o la quantità di spazio a disposizione”.
Questo libro è per chi è forte di stomaco, per chi ama le fotografie senza filtri, per chi ha un una frase di Nelson Mandela tatuata e ha ricominciato da capo più volte. Agita, scuote ma in qualche modo le emozioni sono messe al riparo dalla scrittura di Colson Whitehead che è controllata, distaccata anche quando racconta le scene più cruente. Niente pathos. E per fortuna, perché immedesimarsi anche solo per un minuto in Cora costa parecchio.
Colson Whitehead ha vinto il premio Pulitzer e il National Book Award nel 2017 per questo romanzo.
La ferrovia sotteranea non è il capolavoro che ci si aspetta, anche perché è una storia già raccontata, ma è un libro che lavora dentro.
Patrizia Carrozza
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